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Tagore poesie.

  • Questo topic ha 0 risposte, 1 partecipante ed è stato aggiornato l'ultima volta 8 anni, 3 mesi fa da Anonimo.
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    Anonimo
    Inattivo

    Un tempo camminavi con me,
    caldo era il tuo respiro, il tuo corpo
    cantava la vita.
    Il mio mondo parlava con la tua voce
    e mi toccò il cuore con il tuo volto.
    Ti sei fermata all’improvviso nel tuo cammino
    all’ombra dell’Eterno, io ho continuato da solo.

    Dono d’amore, 1917.

    Sei venuta per un attimo al mio fianco
    e mi hai toccato e commosso con il grande
    Mistero della donna, che palpita nel cuore
    stesso della creazione… L’Eterno in lei s’incarna
    in una gioia che trabocca di dolore, trabocca d’amore.

    Tagore non fu e non volle mai essere un asceta: la sua vocazione è essenzialmente poetica – la sua visione del mondo profondamente estetica. Anche se fu la poesia mistica di Gitânjâlî a conquistare l’Occidente, egli scrisse stupende poesie dedicate all’amore per la donna e alla contemplazione della natura.

    Ho oscurato i tuoi occhi con l’ombra
    della mia passione. Tu abiti
    il mio sguardo nel profondo.
    Ti ho presa e ti stringo, amore mio,
    nella rete della mia musica.
    Tu sei mia, solo mia, e
    dimori nei miei sogni immortali.

    Il Giardiniere, 1913.

    Sono versi che ricordano il biblico Cantico dei Cantici e insieme il sublime Gîtagovinda di Jâyâdêvâ.

    Hai colorato i miei pensieri e i miei sogni,
    con gli ultimi riflessi della tua gloria, Amore,
    trasfigurando la mia vita per la prossima
    bellezza della morte. Come il sole
    al tramonto ci lascia intravedere
    un angolo di cielo, tu hai mutato
    il mio dolore in gioia immensa.
    Per incanto, Amore, vita e morte
    sono diventate per me
    una sola grande meraviglia.
    Petali sulle Ceneri, 1917.

    È davvero sconvolgente, per il lettore o il poeta occidentale nutrito con il latte di Omero, Eschilo, Virgilio, Dante e Leopardi, trovare una visione della vita e della poesia certo profondamente consapevole di tutto il dolore del mondo – e Dio sa quanto gli Indiani ne siano consapevoli, in ogni epoca della loro storia – e, al tempo stesso, decisamente non pessimistica, anzi sottilmente, potentemente orientata verso la luce. Forse Dante solo in tutto l’Occidente ha saputo fare questo.

    C’è un poeta
    nel cuore dell’universo !

    Canta Tagore in Sfulingo, Scintille.

    L’universo è in Tagore abitato dalla gioia: questa gioia è amore, segno di presenza divina. Risuona qui evidente il messaggio del Cantico dei Cantici, di Zoroastro o Zarathustra, che Tagore ammirava forse più di ogni altro uomo, del Buddha e di Gesù Cristo, cui Tagore dedicò numerose meditazioni e che giunse nella storia dell’umanità, non dimentichiamolo, dopo tremila anni di altissima civiltà orientale, dall’India all’Iran fino a tutta la Mezzaluna Fertile. Ed ecco un punto ulteriore in cui Tagore ci conquista per sempre: una coincidenza all’infinito dell’Uomo e dell’Opera, della Visione e del Canto, della Scrittura e della Vita.
    Tagore non esita un istante a nominare la gioia e l’amore che pervadono l’universo, dal filo d’erba al cielo stellato e a pronunciare parole per noi quasi indicibili: Bellezza, Verità, Bontà — Infinito. Poesia è in Tagore l’itinerario dell’anima verso la natura intima degli esseri e attraverso gli esseri verso un principio assoluto e onnipresente che li porta all’essere: ciò che gli Occidentali chiamano Dio e gli Indiani Brâhman.

    L’immortale si manifesta in gioia,

    scrive in
    Ali della Morte, a settantanove anni.

    Si può dire che tutta la poesia di Tagore sia una meditazione intorno al Brâhman. Tutto l’itinerario poetico e spirituale di Tagore è una ricerca dell’ente supremo: le parole che ha così musicalmente unito l’una all’altra sono altrettanti passi di un cammino rivolto, attraverso gli esseri, le forme, le storie, all’Assoluto, al dio senza nome, a quel principio infinitamente nominato e perfettamente innominabile verso il quale i poeti veggenti dell’India antica rivolgevano i loro inni e i loro canti.

    Ho nostalgia di cose lontane.
    La mia anima desidera toccare
    il limite dell’Oscura Lontananza.
    O Grande Aldilà, o acuto richiamo del tuo flauto!

    Sono insonne nella mia angoscia:
    uno straniero in terra straniera.

    O Meta lontanissima, o acuto
    richiamo del tuo flauto!

    Il Giardiniere, 1913.

    La vita e l’opera di Tagore sono un cammino incessante: l’idea in atto di un itinerario l’abitano dal principio alla fine. Ogni parola è un passo. Ogni frase un sentiero. Ogni libro un intreccio di molteplici vie. Più ancora che una metafora, il viaggio è la realtà fondamentale dell’esistenza di Tagore. A questa si unisce la poetica dello Straniero: Straniero è in Tagore uno dei nomi di Dio, che è anche chiamato il Vagabondo, il Navigatore, il Mendicante, il Viaggiatore.

    Ai margini della strada
    sta colei che attende
    il mio Navigatore.
    Per lei osò il viaggio
    a tutti segreto:
    lui viene spingendo la barca.
    I capelli si scompigliano,
    tra le fondamenta divelte
    sibila il vento.
    La fiamma trema e si spegne
    al vento e alla pioggia
    ombre salgono nella casa.
    Viene a chiamare per nome
    colei ch’è senza nome
    il mio Navigatore.

    Balaka, Calcutta, 21 agosto 1914.

    Sono un viandante.
    Nessuno mi fermerà:
    le gioie e i dolori sono illusioni.
    Senza casa, sempre, camminerò…

    Gîtanjâlî, 1912.

    Tagore amò a fondo, ricevendone costante ispirazione, i baül, aedi, poeti itineranti, spogli di tutto tranne che delle loro voci, dei loro strumenti e dei loro canti, del loro dio interiore: poeti che vagavano attraverso il Bengala da tempi immemorabili, portando canzoni d’amore per un Dio altrettanto spoglio e privo di formule e di riti, per la natura, per la donna. Essi furono per Tagore esempi viventi di un’autentica vocazione poetica.
    È importante vedere che in Tagore non vi è alcuna forma di esaltazione dell’io, nessun voler porre il poeta al di sopra o al di là degli altri uomini: la sua posizione fu sempre di un’umiltà abissale; non vi è mai in Tagore alcuna presunzione di superiorità e tantomeno disprezzo per l’altro, chiunque egli sia. Presente o assente, umano o non umano, l’altro è testimoniato e perpetuato dalla poesia. La poesia testimonia dell’istante privilegiato in cui l’altro si rivela in tutta la sua verità. La poesia è indirizzo all’altro e in prima e in ultima istanza a quell’infinitamente Altro che è il Brâhman. Ma l’altro è anche lo Straniero, il Vagabondo, l’Ignoto, uomo o Dio, uomo e Dio. Ed è fiore, albero, fiume, montagna, oceano. Vedere Dio nell’Altro e non in se stessi o nei fantasmi del proprio io, questo è forse il movimento essenziale della poesia-visione di Tagore.

    L’ignoto è l’eterna liberazione…

    scrive nel Paniere di frutta, LXII, 1916.

    Mai è affermata la superiorità dell’artista. L’autore della creazione è Dio. Il poeta è uno strumento della sua rivelazione. Ci avviciniamo, concludendo, al destino ultimo della poesia di Tagore: iniziata con un’epifania rivelatrice del mondo, si risolve in una vera e propria poetica della liberazione. Liberazione dai vincoli dell’io e proiezione verso l’infinito. E questo in ultima istanza ci conquista in Tagore: etica, poesia, arte, filosofia, impegno pedagogico, politico, sociale, economico sono in una osmosi permanente. Vi è qui una sorta di coincidenza all’infinito, reale e insieme impossibile, tra la Vita e l’Opera. Un problema che nessuno scrittore occidentale è mai riuscito a risolvere. Abolita ogni separazione tra vita e arte: arte e vita sono una sola e unica cosa in perenne divenire. In prima e ultima istanza, il vero e unico soggetto della poesia di Tagore è questo: l’infinito.
    O Poeta,
    compi il tuo ultimo lavacro
    nelle limpide acque della notte emergente.
    Questa terra addolorata ti ha servito
    e ti ha nutrito,
    però non stringerti a lei.
    Essa non esita a strapparti
    quello che un tempo ti diede.
    Il tributo che ricevesti all’inizio
    non serrartelo al cuore.
    L’oro della moneta lo consuma il tempo,
    rivelando l’interna faglia.
    Se hai coltivato il frutto del giardino,
    sai che trova la sua fine
    quando cade al suolo.
    La stagione dei fiori è finita
    – così lascia che si estingua
    l’essere tuo sospeso
    all’alito dell’umana lusinga.

    Mentre avanzi
    non volgerti indietro
    a stendere le mani.
    Nella vita
    quel che donasti sinceramente
    non macchiarlo esigendone il prezzo.
    Il piattino dell’obolo sia l’ultimo tuo dono
    come una foglia secca che acclami la primavera.
    Quel che tu attendi
    con la speranza nel cuore
    non è la gloria – è il muto
    richiamo dell’alba alla tua
    Vita nuova: è l’aura della luce nel mattino
    sulla fronte di chi si ridesta.

    Ali della morte, 18 dicembre 1937.

    Vi sono uomini che sono fari: essi non soltanto illuminano le nostre navigazioni attraverso l’Arcipelago, ma sono essi stessi i più coraggiosi navigatori. Vengono prima di noi e sono già oltre di noi. Essi vengono dal passato e insieme dal futuro ed è nella felice e drammatica collisione tra le forze del passato e le forze del futuro che avviene la liberazione della loro luce imperitura. Essi sono per così dire incamminati verso di noi dal futuro. E, a ben vedere la loro luce non è più da tempo quella di un faro, ma è la luce di una stella.

    © Michele Baraldi, Parigi, il 7. VII. 2011.

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