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Rispondi a: Padre Pio si procurava acido fenico in segreto?.

#63660
Anonimo
Inattivo

Comunque ho trovato una cosa interessante!

Acido fenico e veratrina

Si è molto parlato della testimonianza resa a monsignor Salvatore Bella, vescovo di Foggia, dalla farmacista Maria De Vito e da suo cugino Valentino Vista nel luglio del 1920, a due anni da quel 20 settembre 1918 in cui Padre Pio aveva ricevuto le stimmate mentre stava pregando nel coro del convento. Un documento conservato nell’Archivio del Sant’Uffizio. Il farmacista Vista denunciò che la cugina, tornando da San Giovanni Rotondo, «mi portò i saluti di Padre Pio e mi chiese a nome di lui e in stretto segreto dell’acido fenico puro, e mi presentò una bottiglietta della capacità di un cento grammi, datale da Padre Pio stesso». Leggiamo immediatamente la deposizione di Maria De Vito, allegata anch’essa al faldone conservato nell’Archivio della Congregazione della Dottrina della fede: «Mi consegnò personalmente una boccettina vuota, richiedendomi che gliela facessi pervenire a mezzo dello chaffeur che prestava servizio nell’autocarro passeggieri da Foggia a S. Giovanni, con entro quattro grammi di acido fenico puro, spiegandomi che l’acido fenico serviva per la disinfezione delle siringhe occorrenti alle iniezioni che egli praticava ai novizii di cui era maestro». Nel fascicolo si trova un biglietto autografo di Padre Pio nel quale è scritto fra l’altro: «Ho bisogno di aver da duecento a trecento grammi di acido fenico puro per sterilizzare».
Emergono immediatamente diverse perplessità, a partire dal motivo per cui Padre Pio diede alla De Vito il biglietto. Luzzatto suggerisce che era per il timore di non poter comunicare a tu per tu: ma se le ha consegnato la boccettina è evidente che le ha potuto parlare. E questo è il primo mistero. Il secondo mistero è relativo alla quantità di acido fenico chiesta dal cappuccino: nel bigliettino di Padre Pio si legge «da duecento a trecento grammi», la dichiarazione giurata della De Vito afferma «quattro grammi», il rapporto del cugino farmacista asserisce che gli è stata presentata «una bottiglietta della capacità di un cento grammi». Non risulta strano che Padre Pio chiede almeno duecento grammi e dà una boccetta che ne contiene appena cento?
Ancora un nuovo mistero: nel bigliettino non c’è alcun riferimento alla segretezza della richiesta, asserita dalla De Vito e dal cugino. Ma Padre Pio, per la consegna “in segreto” della sostanza, dice nel suo biglietto di far riferimento allo chaffeur del servizio automobilistico Foggia-San Giovanni Rotondo. Con tutto il rispetto per l’autista, non sembrerebbe la persona più adatta a svolgere una qualsiasi attività “segreta”, visto che su quell’autobus passavano e chiacchieravano tutti i sangiovannesi.
Procediamo con l’analisi della provocazione lanciata da Luzzatto: «Se davvero Padre Pio necessitava di acido fenico per disinfettare le siringhe con cui faceva iniezioni ai novizi, perché mai procedeva in maniera così obliqua, rinunciando a chiedere una semplice ricetta al medico dei cappuccini, trasmettendo l’ordine in segreto alla cugina di un farmacista amico, e coinvolgendo nell’affaire l’autista del servizio pullman tra Foggia e San Giovanni Rotondo?».
Non è occorso troppo sforzo per trovare alcune possibili risposte. Innanzitutto in quei mesi anche a San Giovanni Rotondo si continuava a vivere nel clima di paura per l’epidemia influenzale spagnola, che rendeva necessaria una accurata disinfezione delle siringhe. Si può dunque ragionevolmente ipotizzare che episodicamente sostanze antisettiche come l’acido fenico mancassero nel paese e fosse perciò necessario dirigersi verso il capoluogo. Ce lo documenta la testimonianza di padre Ignazio da Jelsi a riguardo dell’intervento chirurgico che Padre Pio subì nel 1925 all’ernia: nonostante si fosse in anni ormai meno disagiati rispetto a quelli dell’immediato dopoguerra, la sera precedente l’operazione mancava la novocaina e si dovette andare a Foggia per procurarla. Un’altra ipotesi realistica è il desiderio di Padre Pio di non gravare sulle casse della comunità, in quanto, chiedendolo alla De Vito, egli sapeva che il materiale gli sarebbe giunto gratuitamente.
È opportuno aggiungere che mai, in ogni caso, l’acido fenico avrebbe potuto causare e mantenere le profonde lesioni del frate, che i medici Luigi Romanelli e Giorgio Festa avevano potuto osservare accuratamente, riscontrandone la profondità, come un foro che attraversava mani e piedi, ricoperto soltanto da una membrana di pelle e di croste sanguigne. A riprova, leggiamo qualche autorevole testo dei nostri giorni: il vademecum Martindale attesta che «severo o fatale avvelenamento può verificarsi per l’assorbimento di fenolo attraverso la pelle o le ferite [e] soluzioni contenenti fenolo non devono essere applicate su vaste aree della pelle o ampie ferite poiché può essere assorbito sufficiente fenolo da dare luogo a sintomi tossici», mentre il prontuario Effetti indesiderati da farmaci chiarisce che l’acido fenico «a livello cutaneo può provocare necrosi coagulativa superficiale», ossia non favorisce ma blocca l’emorragia sanguigna. Nessun dubbio: l’uso continuato dell’acido fenico sulla pelle, anche soltanto per qualche mese, avrebbe causato danni irreparabili ed evidentissimi (figuriamoci per un cinquantennio!).
Passiamo alla seconda presunta “bomba” tirata fuori da Luzzatto nel suo libro su Padre Pio, sempre attraverso la citazione del rapporto del farmacista Valentino Vista: «Dopo poco tempo dalla richiesta dell’acido fenico venne una seconda richiesta. […] Appena la lessi mi venne il sospetto che i 4 gr. di veratrina richiesti da P. Pio servissero al medesimo per procurarsi o rendere più appariscenti le stigmate alle mani». Considerate tali esplicite accuse, il visitatore apostolico Carlo Raffaello Rossi – inviato a San Giovanni Rotondo dal Sant’Uffizio – mise alle strette il cappuccino nell’interrogatorio del 15 giugno 1921:
«Interr. Se abbia richiesto in passato la veratrina, e per quale scopo. Risp. Sì, lo ricordo benissimo. La richiesi, senza conoscerne neppur l’effetto, perché il P. Ignazio Segretario del Convento, una volta mi dette una piccola quantità di detta polvere per metterla nel tabacco e allora io la ricercai più che altro per una ricreazione, per offrire ai Confratelli tabacco che con piccola dose di questa polvere diviene tale da eccitare subito a starnutire».
Qual è stato il commento dello storico Luzzatto a tale riguardo? Nel suo libro ha sostenuto «la scarsa verosimiglianza di giustificazioni come queste», mentre in televisione ha affermato con tono sarcastico che «le spiegazioni che lui dava erano delle volte sorprendenti». Era sufficiente invece recarsi in biblioteca e consultare il volume Medicamenta. Guida teorico-pratica per sanitari, una specie di “bibbia” per i farmacisti, che già nell’edizione del 1914 propone folgoranti parole che tramortiscono le irrisioni di Luzzatto: «La veratrina del commercio è una polvere […] assai irritante per le mucose e starnutatoria. […] Polvere bianca, leggera, che irrita la congiuntiva ed eccita violentemente lo starnuto. […] Fiutata provoca sternuti, lacrimazione e catarro nasale, spesso anche tosse».
Insomma, Padre Pio aveva pienamente ragione: in sostanza era qualcosa di simile a quelle polverine che prudevano e facevano starnutire, utilizzate ancora dai ragazzi degli anni Settanta a Carnevale! E che lo storico abbia “annusato” la verità ma abbia fatto finta di nulla ce lo documenta la colpevole assenza nel suo libro della testimonianza sotto giuramento di padre Ignazio da Jelsi, sempre dinanzi al vescovo Rossi, visitatore apostolico vaticano: «La veratrina ce l’ho. In un altro Convento avevamo farmacia per la Comunità, numerosissima. Un farmacista me ne dette un grammo e ne conservo. Una sera scherzando coi confratelli feci provare che effetto produce avvicinandola al naso. Ne prese anche P. Pio e bisognò che andasse in cella perché non cessava dallo starnutire». Questa dichiarazione è importantissima: attesta che davvero la veratrina venne usata per uno scherzo e soprattutto conferma le parole che Padre Pio, dopo aver giurato sul Vangelo, disse al visitatore apostolico Rossi. Perché Luzzatto ha omesso questa testimonianza, presente e consultabile nel fascicolo del Sant’Uffizio? Perché non se ne trova traccia nel suo libro? Forse perché citandola si sarebbe smontato il «sospetto» di un Padre Pio impostore, o «piccolo chimico» (come Luzzatto lo definisce), che gioca con gli acidi per procurarsi i segni della passione di Cristo? Spiace notarlo, ma la scelta di omettere del tutto questa dichiarazione giurata di un confratello di Padre Pio, in grado di avvalorare la spiegazione che lo stesso frate stimmatizzato aveva sinceramente fornito, mostra a nostro avviso la parzialità del volume dello storico.

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